martedì, aprile 08, 2008

DIARIO STRASBURRESE - GIORNO 0


GIORNO ZERO.

Di notte sogno a scatola cinese (o se preferite ad incastro) la partenza. Sogno il tuffo al cuore e la vertigine che sempre mi accompagna nel momento del decollo. Stringo la mano di S. per non cadere in preda al panico. Ma subito scompare. Anche in sogno non mi è concesso più di tanto.

La mattina mio fratello mi accompagna in aereoporto. Io mi lamento del lavoro, lui non ha voglia di starmi a sentire e abbiamo il tempo di litigare e fare tacitamente pace.

Check-in interminabile. Torme di studentelli in vacanza. In aereo vengo messo vicino all’uscita di sicuezza, il volo è pieno di turbolenze e non poter vedere cosa accade fuori non aiuta. Quaranta minuti di ritardo e una corsa da matti all’aereoporto Charles de Gaulle per afferrare la coincidenza con Strasburgo. Al gate vedo strani figuri con il tipico tubo da poster scientifico a tracolla. Colleghi della conferenza. Sto bene attento a non avvicinarmi e a non socializzare. Si tratta di strani figuri né maschi né femmine vestiti tristemente e dal colorito improbabile. Non fraintendetemi, non ho nulla contro l’ambiguità sessuale, anzi ci sguazzo. Solo che qui si tratta di asessualità, di morte in vita, di gente che parla solo del loro pallosissimo lavoro, di donne che non sanno più (o non hanno mai saputo) cos’è la femminilità, che indossano mocassini e non sanno che vuol dire un filo di trucco, di uomini che si sono scordati di avere testosterone e di conseguenza un pene.

Arrivato a Strasburro mi rendo conto di non aver preso nota su internet del tragitto dall’aeroporto all’albergo. Riesco ad arrivare al centro cittadino e a naso alla stazione ferroviaria centrale. Lì seguo l’odore del kebab e arrivo al’hotel All Seasons. Un incanto di ragazza, capelli rossi e occhi d’argento, mi dà le chiavi della 108. Scopro con terrore che in albergo non ci sono prese shuko per il mio portatile, né adattatori. In preda al panico decido che è meglio pensare prima al cibo. C’è una dieta da rispettare. Vado da McDonald’s e ordino un’insalatina col tonno e un bicchiere d’acqua. Questi cazzo di francesi non conoscono o fanno finta di non conoscere il significato della parola water. Esco. Ho ancora fame. Davanti a me, uno accanto all’altro, una sfilza di ristorantini arabi. Mi dico, solo un kebab e poi torno in albergo. Entro nel primo ristorante che mi capita sotto tiro. Il tizio al bancone non parla inglese, ma un po’ a gesti, un po’ con la buona volontà mi fa capire che posso servirmi quanto voglio e di ciò che voglio, tanto si paga sempre 12 euri. Giù polpettine, kebab, carni speziate, patatine, verdurine, cocacola. Ogni boccone un senso di colpa. Ogni sorso un chi cazzo me l’ha fatto fare. Per inciso tutto questo ben di dio alberga ancora nel mio ventre, e non cesso di fare puzzettine aromatizzate che dissemino per il centro congressi.

Torno in albergo, mi metto vestito sotto le coperte, un macigno nello stomaco e il panico nella testa: non ho finito di preparare la mia presentazione orale e in questo cazzo di albergo non esistono adattatori per l’alimentatore del mio laptop. Mi addormento e mi sveglio dopo due ore, in preda all’arsura. Chiedo alla reception una bottiglia d’acqua. Un’altra dea, questa volta nera d’Africa e snella e forte, viene in mio soccorso con una minerale. Torno in stanza, mi faccio coraggio, accendo il computer e nei pochi minuti concessimi dalla batteria completo alla meglio il mio talk.

Crollo a letto, nelle recchie l’iPod che mi suona Gianfranco Marziano: - a questo punto del pezzo m’aggio gà rutto ‘o cazzo…ci dispiace, signora, ma sembra che i Gremlins si siano sponzati con l’acqua fetente…